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Tre domande per Franceschini
Mancano 5 giorni alle elezioni e il Pd ancora cerca casa in Europa
di Stefano Fossi
Niente di nuovo sotto il sole. Il Pd, in mancanza di armi migliori, continua a perseguire la vecchia strategia della caccia al Caimano. E la campagna elettorale si trasforma così in una frenetica sequenza di rilanci mediatici, in una demonizzazione permanente ed effettiva di “Silvio, padre di tutti i mali”, in una guerriglia senza esclusione di colpi in cui si cerca di servire qualsiasi sbobba al proprio elettorato – sesso, trame giudiziarie, moniti contro il regime prossimo venturo – pur di ottenere un piccolo vantaggio nel breve termine.
Sullo sfondo resta un partito irrisolto che, come ricorda Peppino Caldarola sul Riformista, deve ancora rispondere a tre domande capaci di definire la propria identità. La prima riguarda la collocazione che il Pd avrà nel Parlamento europeo. Come è noto gli ex democristiani presenti nella nuova creatura hanno posto il veto a un ingresso nel Partito Socialista Europeo. Per questo motivo Piero Fassino ha lavorato a lungo per tentare di creare un nuovo gruppo parlamentare meno connotato a Strasburgo, un gruppo in cui raccogliere tutte le culture progressiste e democratiche. Un accordo però, come confermato da Franceschini stesso, ancora non è stato trovato. “Stiamo ancora discutendo – dice il segretario – è un problema che riguarda diversi partiti di 27 Paesi. Sono ottimista, ma ancora non c’è un accordo”. Fatto sta che a cinque giorni dal voto gli elettori ancora non sanno se il loro voto andrà a un partito legato ai socialisti europei oppure no.
Il secondo nodo irrisolto riguarda il rapporto con Antonio Di Pietro. La strana alleanza, prima suggellata in prossimità delle scorse Politiche, poi rinnegata a più riprese, è davvero archiviata oppure la convenienza politica e l’incontro sul terreno dell’antiberlusconismo la rende ancora attuale e forse inevitabile? Attualmente la seconda risposta è quella più probabile.
L’ultima domanda riguarda il modo in cui Franceschini e la tolda di comando di Via del Nazareno decideranno di combattere la propria battaglia politica contro il premier. Caldarola ricorda giustamente l’idea di un partito che avrebbe dovuto “definirsi per i suoi progetti e non contro qualcuno”. Una volontà di crescita, una prova di maturità politica finita nel dimenticatoio e ormai neppure ricordata come aspirazione ideale, come obiettivo di lungo termine.
La conseguenza di questa deriva è un timore che circola con sempre maggiore insistenza tra i moderati del partito, ad esempio nelle parole di Enrico Letta. “Il centrosinistra e il Pd stanno rischiando il paradigma Bertinotti” ovvero lo spostamento a sinistra con forte perdita di rappresentanza elettorale. E’ questo lo spettro paventato dal parlamentare del Pd ed ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Prodi, durante la presentazione del suo libro “Costruire una cattedrale”.
“Non vorrei che nel Pd – sostiene Letta – considerassimo quello che è accaduto l’anno scorso a Bertinotti come qualcosa di cui godere. Gli italiani danno un voto utile e non solo di bandiera. Attenzione, perché se il Pd e il centrosinistra sposano questa tesi è troppo difficile arrivare al 51%”. Enrico Letta, insomma, considera rischioso lo schiacciamento a sinistra con l’obiettivo di “governare da tante parti, concentrandosi però a livello nazionale solo su una buona opposizione. Sono convinto che rischiamo il paradigma Bertinotti”.
La questione, però, sembra più ampia, perché stavolta è proprio sulle “tante parti”, ovvero sulle amministrazioni comunali e provinciali delle zone tradizionalmente rosse, che si gioca la vera partita per la sopravvivenza dei democratici di Franceschini. Se dovesse cadere qualche frontiera ancora inespugnata allora l’effetto domino potrebbe davvero travolgere il progetto stesso del Pd con conseguenza ancora imprevedibili.
Elio Veltri: “Di Pietro razzola male”
di Elio Veltri
Nell’incontro del 2 Aprile a la Spezia, presenti Marco Travaglio ed io, alcuni dei partecipanti hanno chiesto informazioni su Di Pietro e sulle vicende di cui si parla da tempo sui giornali: immobiliari in Italia e all’estero, affitto al partito di due case di sua proprietà, gestione del finanziamento pubblico, direzione teocratica dell’IDV.
Travaglio ed io abbiamo dato valutazioni diverse (cosa nota), ma io ho raccontato un fatto che ho scoperto da poco tempo e che forse nemmeno Travaglio conosceva, tanto divertente ( si fa per dire) da ricordare la caduta di Mussolini ad opera del Gran Consiglio.
Il fatto è questo: accanto al partito Italia dei Valori, opera un’Associazione costituita davanti al notaio (e anche questo si sapeva) che ha caratteristiche e poteri unici almeno in Europa (e questa è la scoperta recente).
Infatti nello Statuto datato 2004 c’è scritto:
L’associazione è costituita da Antonio Di Pietro Presidente, da Silvana Mura Tesoriera e dall’avvocato Susanna Mazzoleni moglie di Di Pietro;
Nel consiglio dell’Associazione si può entrare solo con il consenso del Presidente davanti al notaio;
Il finanziamento pubblico che lo Stato da all’Italia dei Valori va all’Associazione e non al partito che si finanzia con i soldi degli iscritti;
La Presidenza del partito è del Presidente dell’associazione, cioè di Di Pietro a meno che egli nonvi rinunci;
La Tesoreria del partito è della tesoriera dell’associazione e cioè della Mura.
Quindi, Camera e Senato distribuiscono il finanziamento pubblico convinti di darlo al partito ma li danno ad un’Associazione privata impenetrabile.
Di Pietro rimane Presidente a vita del partito perché né gli iscritti né un eventuale congresso può sfiduciarlo e certo non lo faranno la moglie e la Mura. E anche Silvana Mura è nominata tesoriera a vita.
Come esempio della riforma della politica non è male ed è anche un caso più unico che raro. Ma che c’entra Mussolini? C’entra, perché se avesse fatto il Gran Consiglio con donna Rachele e la Petacci il 25 luglio non lo avrebbero mandato a casa e il Re non lo avrebbe fatto arrestare.
Tonino predica bene e razzola male. Gli piace tanto la democrazia. Ma quella degli altri. Però, in un paese come il nostro, è davvero una Bazzecola
Questa la realtà: gli italiani si sentono così maltrattati da Berlusconi che … lo hanno fatto vincere alle ultime elezioni politiche!!!
Pd e astensionismo
Le “divisioni” de “La Repubblica”
Giampaolo Pansa ha sostenuto che il vero vincitore morale delle elezioni del prossimo fine settimana è il quotidiano di Carlo De Benedetti diretto da Ezio Mauro. Non solo perché è il giornale che, costringendo Dario Franceschini ad incardinare la campagna elettorale del Pd sul gossip, ha imposto a tutte le forze politiche il pettegolezzo sul Premier come il solo ed unico argomento del dibattito politico nazionale. Ma perché comportandosi in questo modo e sfruttando alla grande lo spunto dato dall’annuncio di divorzio di Veronica Lario, ha aumentato le vendite e riconquistato la quota di mercato editoriale che negli ultimi tempi era stata pericolosamente erosa dalla crisi generale della carta stampata. Pansa ha sicuramente ragione. Qualunque possa essere l’esito del voto, “La Repubblica” è destinata ad uscire comunque vincitrice dalla tornata elettorale. Ma quali possono essere gli effetti politici ed editoriali di questa indiscutibile vittoria? Il primo interrogativo apre un capitolo di estremo interesse su due questioni specifiche. Quanti voti muove e sposta il giornale di De Benedetti? Ovvero, quante “divisioni elettorali” ha Ezio Mauro? E, come seconda questione specifica, dove si andranno a collocare queste “divisioni”? Accanto al Partito Democratico oppure a fianco dell’Italia dei Valori e delle liste dell’ultrasinistra? In apparenza la risposta al primo quesito dovrebbe venire dai dati di vendita e di lettura del “giornale-partito” debenedettiano. Nella realtà le cifre forniscono un dato che va inquadrato all’interno dei confini della sinistra.
I lettori de “La Repubblica” non sono distribuiti tra i diversi partiti dell’intero arco politico nazionale. Sono attestati tutti e senza alcuna eccezione all’interno della sinistra. Il giornale di Mauro, in altri termini, non sposta un voto tra centro destra e centro sinistra. Non provoca una sola defezione nello schieramento guidato da Silvio Berlusconi (anzi, tende a motivarlo e a ricompattarlo) ma opera esclusivamente all’interno dello schieramento della sinistra.
Gli effetti sull’area dell’opposizione delle manovre portate avanti dalle “divisioni” de “La Repubblica si potranno conoscere con esattezza solo lunedì prossimo. Ma se Pansa ha ragione nel sostenere che il giornale ha imposto la propria linea a Franceschini, ne deriva automaticamente che il Pd ha dato l’impressione di non aver avuto né la forza né la capacità necessarie ad elaborare una propria linea autonoma. E la circostanza difficilmente può avere come conseguenza la decisione in massa dei lettori de ”La Repubblica“ di votare in favore del Partito Democratico. Come può il militante ideologizzato che s’identifica con un quotidiano dalla fortissima identità dare fiducia ad un partito che ha una identità ed una personalità talmente tenui e sbiadite da farsi dettare la linea da una redazione giornalistica? Più facile, allora, prevedere che l’azione de ”La Repubblica“ provocherà uno spostamento di voti all’interno della sinistra. In primo luogo dal Pd all’Italia dei Valori. In secondo luogo dallo stesso Pd e dagli altri partiti minori della sinistra, che difficilmente sembrano in grado di superare il quorum del 4 per cento, al partito dell’astensione. Tutto lascia credere, dunque, che il vincitore morale finirà con il favorire il successo materiale di Berlusconi e la sconfitta reale della sinistra. Con effetti duraturi sui dati di vendita de ”La Repubblica“ e delle altre testate del gruppo? Anche su questo punto i dubbi non mancano. Per un giornale che fonda il proprio successo sul prestigio e la credibilità il gossip può avere l’effetto del doping su un qualsiasi atleta. A breve ne aumenta il rendimento. Nei tempi medi e lunghi, però, ne accelera il declino.
Arturo Diaconale